Il magnate punta a stanare Twitter sulla quantità di profili falsi che rappresentano il principale veicolo di bufale e hate speech. La guerra in Ucraina ha riportato alla ribalta il tema dell’odio e della propaganda online. È proprio dalla Rete che bisognerebbe ripartire per (ri)dare un futuro “etico” all’informazione. Ma più che un sogno è una chimera 21 Mag 2022 Mila Fiordalisi Direttore
Non è bastata la lezione del Covid a insegnare quanto le fake news online siano potenti al punto da accreditare teorie e tesi, anche le più incredibili. Dai chip sottopelle connessi al 5G passando per i vaccini a base di sostanze tossiche e via dicendo, dai farmaci dal potere miracoloso a ciondoli in grado di schermare da radiazioni: la lista delle bufale che si è diffusa online negli ultimi due anni è lunghissima e continua a restare ben salda e senza alcuna possibilità di oblio. Il virus della disinformazione si propaga ad una velocità e a un livello di contagio inarrestabili. E non sono bastati i tentativi e le iniziative portate avanti dalle piattaforme social – Facebook e Twitter in testa – per oscurare fake news, video e a bloccare ed eliminare profili falsi ad arginare il fenomeno. Il conflitto russo-ucraino ha fatto rimbalzare i numeri, questa volta è Telegram il canale finito nel mirino (ma non solo). Le campagne di disinformazione, d’odio e di propaganda fanno proseliti al punto da divenire oggetto di attenzione politica e da rappresentare cartine di tornasole per i sondaggisti. Il fenomeno è uscito fuori dalla Rete coinvolgendo prima le versioni online di quotidiani e testate giornalistiche (che con titoli acchiappa-click spesso distorcono e sviano il senso stesso delle notizie) e ora più che mai le principali trasmissioni televisive, quelle di dibattito, che stanno ricalcando il “modello” social per far aumentare l’audience contando sulla presenza di personaggi e sedicenti esperti portati alla ribalta proprio per la loro capacità di generare follower online e offline e di far balzare gli hashtag e gli account degli stessi media “tradizionali” nella classifica dei “trend topics” e di innescare dubbi e paure. L’informazione è finita in una perversa trappola da cui è difficile se non impossibile tirarsi fuori. Persino il Copasir si sta interessando alla questione: una cosa mai vista e che induce quantomeno a una riflessione, al di là delle inevitabili polemiche che ne sono generate sul fronte della “libertà dell’informazione”, sbandierata all’occorrenza – diciamolo – solo per dare una parvenza alla forma più che alla sostanza. Ma più di tutti si è accanito sulla questione delle fake news Elon Musk che con la sua offerta da 44 miliardi per rilevare Twitter si è fatto paladino di un “sogno”: estirpare alla radice la disinformazione sui social e l’hate speech. Più che un sogno una chimera. Eppure ci crede il visionario creatore di Tesla e SpaceX. E checché se ne dica finora è riuscito a trasformare le sue visioni in progetti di business a nove zeri al punto da diventare l’uomo più ricco al mondo. Come andrà a finire l’operazione Twitter siamo tutti curiosi di capirlo. E siamo curiosi di capire se quel 5% di account fake dichiarato da Twitter sia la verità o una bufala colossale. Musk sostiene che i profili falsi potrebbero essere il 20%. E non si tratta di una questione di lana caprina: se così fosse vorrebbe dire che gli utenti unici dichiarati da Twitter sarebbero molti meno considerando che i profili fake sono spesso e volentieri alter ego di persone che non vogliono metterci la faccia quando si tratta di insultare, di denigrare, di diffamare. E che, in termini di business, il valore di Twitter sarebbe dunque ben altro rispetto a quello dichiarato dall’attuale proprietà: non solo uno non varrebbe uno ma addirittura due (o più) conterebbero solo come uno. Una grossa differenza per gli investitori, si pensi al mondo della pubblicità. Sarà complicato venire a capo dei numeri ma le ipotesi di Musk appaiono più che veritiere: basta dare un’occhiata a quanto accade sui profili social dei cosiddetti influencer, ma vale anche per noi comuni mortali dai numeri risibili. A scorrere i commenti appare a occhio nudo la quantità di profili senza nome e cognome, alias senza identità, che si rendono protagonisti delle cosiddette campagne di shit storm non appena l’occasione si fa propizia, praticamente tutte le volte che un tweet non piace o non è allineato alle proprie idee e convinzioni e, peggio ancora, a quelle del “capobranco” di turno – sono ormai note a tutti, tanto per fare un esempio, le campagne denigratorie portate avanti attraverso eserciti di account fake creati ad hoc da social media manager di professione su commissione di politici e partiti e persino di giornalisti, imprenditori e manager, insomma anche di persone all’apparenza “perbene” ma il cui lato oscuro si palesa fra le maglie strette della Rete in cui tutto si crea e si distrugge. Sarebbe bello un mondo social in cui le piattaforme si prendessero la responsabilità (annosa questione) di autorizzare la creazione di un account solo a fronte di identità “reali”, con nomi, cognomi e perché no anche con documento di riconoscimento. Non avrebbe niente da ridire chi sta in Rete senza nascondersi, ma i dibattiti accesi che si sono già scatenati e continuano a scatenarsi alla sola ipotesi di “controllare” qualcuno – e qui dalla bandiera della libertà di informazione si impugna quella della libertà di espressione – sono il segno evidente che quel 20% che ipotizza Musk potrebbe essere persino “prudente” come si dice in gergo. E che la percentuale potrebbe rivelarsi bulgara se solo fosse possibile averne evidenza. Ma per dirla alla Totò “se fossi, se avessi e se potessi erano tre fessi che giravano per il mondo”.
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