I danni dei cyber-terroristi e quanto sono importanti le tecnologie di riserva

I recenti e sempre più sofisticati attacchi hacker, o i semplici “down” informatici, dovrebbero metterci in guardia dall’affidare tutta la nostra vita alla “Rete”

di Roberto Ezio Pozzo23 Ottobre 2024, 6:00

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Ancora una volta, la sicurezza informatica balza prepotentemente alla ribalta della cronaca dopo due episodi alquanto significativi. Il primo riguarda l’attacco hacker che ha subito il sito gratuito archive.org, la principale biblioteca online di pagine web, libri e articoli su qualsiasi argomento pubblicati dai primordi di internet fino a oggi, una risorsa essenziale per qualsiasi studioso.

L’immensa biblioteca virtuale è stata fatta oggetto di un attacco di tipo “DDos”(Distributed Denial of Service) basato, in sostanza, sul “bombardamento” di richieste di accesso al sito che si vuole danneggiare, mandandolo in crash. Concettualmente, è come se tutte le segnalazioni stradali di una metropoli convogliassero il traffico verso un’unica strada. Tralasciamo, su queste pagine, le dissertazioni tecniche sulla metodologia adottata dai criminali informatici, come quelle inerenti le possibili (poche) contromisure informatiche adottabili e passiamo ad un altro caso eclatante di questi giorni.

Mi riferisco al malfunzionamento dei sistemi informatici asserviti al radar che gestisce  e sorveglia il traffico aereo di tutto il Nordovest, occorso al centro ACC (Area Control Center) di Milano. Tale malfunzionamento, sulle causali tecniche non sono stati divulgati maggiori particolari, ha causato notevoli disagi e ritardi nel traffico aereo riguardanti la regione del cielo più trafficata d’Italia. Non aggiungo altro. Sono stati pochi minuti, ma…

Anche in questo caso, non ci addentreremo nella disamina dei particolari tecnici, per quanto pochissimi se ne conoscano finora, anche e soprattutto per non fornire ulteriore materiale online che potrebbe ispirare qualche delinquente, o magari soltanto qualche coglione informatico, categoria, ahinoi, in rapida crescita.

La difesa del silenzio

Non si dimentichi che sul web, tanto più materiale vi s’immetta, pur se coi più nobili e leciti scopi, descrivendo nel dettaglio le tecnologie hacker, tanto più esso servirà ai pirati informatici (molti dei quali prezzolati per stare al servizio di entità nazionali – definiamole così – e organizzazioni eversive) per elaborare nuovi attacchi sempre più perfezionati e basati sulla conoscenza nel dettaglio delle contromisure che gli esperti informatici consigliano.

Si tratta di un aspetto ingiustificatamente trascurato da larga parte dell’informazione. Per restare nell’ambito dei miei consueti esempi terra-terra, è come se si discutesse della ragion di Stato su un’immensa piazza gremita di persone del tutto sconosciute per un malinteso dovere di comunicare su tutto. Temo che questo, ossia il parlare troppo, accada da troppi anni a questa. Il silenzio è spesso una formidabile arma difensiva, per quanto strillino quelli che vogliano sapere tutto.

La forza della rete

Si trascura, inoltre, di considerare che il maggior punto di forza della rete, talmente pervasiva da permettere ai nostri posteri di indicarla in futuro come “epoca di internet”, è quello di riguardare ogni campo della conoscenza e delle attività umane. Tutto sta lì e da quel contenitore tutto si  preleva perché tutto vi si è messo, nell’immenso mercato globale con poche regole e pochi strumenti per raddrizzarne le inevitabili storture.

Se ci riflettiamo, è il paradosso della libertà ad esserne coinvolto. Se internet permette a chiunque al mondo, persino agli abitanti di qualche sperduta tribù chissà dove, di immettervi dei contenuti, è impensabile poterla controllare capillarmente ed efficacemente, se non con le azioni drastiche e inefficaci dei dittatori che proibiscono o , perlomeno, tentano di proibire l’accesso incontrollato al web.

Magari, dopo quella di internet, seguirà la generazione di quelli che sapranno farne a meno, vivendo meglio e più serenamente di questa generazione zeta che nemmeno sa più scrivere con la penna o leggere un libro di carta. Ma, per adesso, dobbiamo tenerci il web, con tutto il bene e tutto il male che in esso vi sia e tutto il materiale che sempre più ad esso affidiamo, molto spesso oltre ragione. Impensabile, oggi come oggi, farne a meno e ciò sia detto del tutto acriticamente.

Il rischio sovrasaturazione

Nondimeno, per quanto indispensabile, la rete globale manifesta importanti criticità; prima tra tutte il crescente rischio di sovrasaturazione (naturale o provocata che sia).

Tornando a parlare come fossi il capo dei vigili urbani, il monito sarebbe: “Attenzione, Signor Sindaco e signori  concittadini: stiamo concentrando troppa merce in un unico deposito, oltretutto raggiungibile da troppi veicoli su strade ormai inadeguate per quella mole di traffico”. Fossi invece un idraulico che parla con l’amministratore del condominio direi: “Lo so che l’impianto lo abbiamo fatto cinque anni fa, ma non prevedevamo che si sarebbero collegate trecento utenze invece delle trenta previste” . Mi perdonerete per gli esempi banali, ma temo proprio che il problema tecnico sia (anche) questo. I tempi di espansione volumetrica, sulla rete, sono costantemente sempre più brevi. Ciò potrebbe continuare fino al punto di rottura, un principio fisico che non è insensato estendere alla cibernetica.

Non sono eroi

Che poi, il web sia l’Agorà dei pirati informatici lo sanno tutti, ma oltre che essere il luogo nel quale si ritrovano, è pure quello all’interno del quale intendono colpire. Matricidi e fratricidi che recano danno alla loro stessa famiglia, mirano, come possono, al bersaglio grosso e senza troppo badare se l’edificio intero crollerà per i loro colpi e vi rimarranno sotto loro stessi. È l’azione in sé, più che l’effetto finale a “nobilitare” le loro misere e inconsistenti vite.

Né kamikaze né uomini-bomba, questi non agiscono con la ragionevole previsione di provocare una strage: ci provano e basta e ogni volta che falliranno servirà loro per riprovarci in altro modo. Nessun esito fatale e definitivo dell’eroe che s’immola per raggiungere il Walalla, nessuna lucente armatura e nessuno spadone per uccidere il drago, ma un triste pigiama in sintetico e le ciabattone di chi passa giornate e nottate intere a digitare, provandole tutte per entrare negli edifici telematici altrui. Questo è l’hacker tipico. Prima o poi, la bomba scoppierà loro in mano, come abbiamo visto accadere anche e soprattutto coi terroristi che usavano la macchina da scrivere. Ma quanto danno faranno nel frattempo?

Sarebbe un errore attribuire agli hackers una mira da tiratori scelti e una indefettibile determinazione nel colpire “quel” bersaglio. Spesso capita, al contrario, che colpiscano un po’ a casaccio, pur rivolgendo le proprie attenzioni principalmente a tutto quanto per loro sia “Stato”. Ripetete con me almeno cinque volte: “Gli hackers non sono simpatici nerd occhialuti e brufolosi,  ma criminali senza scrupoli consci che potranno causare molte vittime”.

Tutto ciò, al netto dei prezzolati, ai quali venga affidato il compito di recare danno a un obiettivo  ben preciso e dei loro committenti, a titolo di dolo eventuale, qualunque danno collaterale ne derivasse. Non parliamo di nobili cavalieri fedeli al re, ma di gentaglia.

Che esistano pirati informatici per hobby è pure accertato, ossia quelli che ottenuto l’accesso completo ad un sito “importante” si dedicano subito a violarne un altro, ma sono come pescatori che giornalmente ributtino in mare l’intero pescato, ossia numericamente inconsistenti, un po’ come quelli che trovano un portafoglio rigonfio di danaro e lo portano intatto ai carabinieri.

Massima espressione del“no limits”

Altro danno lo apporta il concetto, intrinsecamente pericoloso, della dilagante lode mediatica al “no limits” in quanto tale, visto come presidio di libertà, come stato di grazia collettivo, imperscrutabile e indiscutibile. I limiti, di qualunque origine siano, sono barriere da abbattere. Il web viene inteso come massima espressione del no limits, un cavallo alato che ci conduce verso la libertà e quindi bene salvifico per eccellenza. Che possa essere il somaro che va dove vuole e che ci possa pure assestare un poderoso calcio a doppietta, non passa nemmeno per la testa a tali guerrieri della luce.

Tutti complici

Un’ultima annotazione: l’aspetto più perverso della faccenda è che questa stramaledetta rete l’abbiamo voluta tutti, non è una dittatura impostaci e nessuno, tantomeno chi scrive, potrà tirarsene fuori quando e se si trattasse di vedere chi c’era sotto quel balcone ad applaudire. Tutti noi abbiamo contribuito, e continuiamo a farlo, a espandere la rete globale ed essere dipendenti di questo coso che abbiamo tanto voluto e per il quale spendiamo tanti soldi. Ciò costituisce una novità assoluta, un profilo di unicità che non ci permette di usare la storia e l’esperienza individuale, ossia la coscienza, come un vademecum per tiraci fuori dai guai se la situazione, ossia la rete, dovesse implodere dall’interno.

Ecco perché certi campanelli d’allarme dovrebbero, quantomeno, spingerci a dotarci di tecnologie di riserva che della connessione telematica possano fare a meno. Dopotutto vivevamo in un mondo mediamente civilizzato fino ai primi anni Novanta, o no? Ma di questo ho già parlato molte volte, proprio su queste pagine. Chi volesse approfondire, troverà su Atlantico Quotidiano maggiori dettagli sulla mia teoria, quella che ho definito “One step behind”.

#Cybersecurity#Cybersicurezza#hacker#internet#sicurezza#tecnologia

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Non prendono ordini da Israele, ma mazzette da Hezbollah?

Dagli interrogatori dei prigionieri rivelazioni, se confermate, gravissime. Un peacekeeper danese: le missioni Onu “completamente sottomesse” a Hezbollah

di Federico Punzi22 Ottobre 2024, 5:59

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Non bastavano tunnel, bunker, postazioni e missili a pochi metri dalle basi Unifil, come documentato dall’Idf, nell’area che la missione Onu secondo la risoluzione 1701 avrebbe dovuto mantenere libera da qualsiasi attività di Hezbollah. Nuovi e, se confermati, inquietanti, gravissimi indizi di collusione tra i caschi blu e i terroristi stanno emergendo.

Mazzette a Unifil?

Hezbollah avrebbe pagato personale Unifil per poter usare le sue postazioni e telecamere di sorveglianza. A rivelarlo, negli interrogatori, i terroristi catturati durante le recenti operazioni di terra delle Forze di difesa israeliane (Idf) nel sud del Libano, secondo quanto riferito da fonti degli apparati di sicurezza israeliani al quotidiano Israel Hayom.

Le stesse fonti, a conoscenza dei dettagli, hanno rivelato che Hezbollah ha preso il controllo delle telecamere dell’Unifil nei complessi vicini al confine israeliano e le ha utilizzate per i propri scopi (e questo spiegherebbe perché alcune di esse sono state prese di mira dai carri israeliani).

Naturalmente l’Unifil, contattata dal Jerusalem Post, ha smentito. Staremo a vedere. Se queste testimonianze dovessero essere confermate, certamente il governo israeliano ne chiederà conto.

In ogni caso, suona già abbastanza grottesco che il governo italiano, come gli altri che forniscono i propri contingenti a Unifil, ribadisca di non prendere ordini da Israele e avverta il governo di Gerusalemme che ogni atto ostile rappresenta una violazione del diritto internazionale e della risoluzione 1701, ma allo stesso tempo rimanga completamente in silenzio mentre proseguono, anche in questi giorni, i lanci di centinaia di missili di Hezbollah dal sud del Libano verso il territorio israeliano. Nessuno che osi rivolgersi a Hezbollah con la stessa durezza (e al governo libanese, fino a prova contraria responsabile per ciò che accade nel suo territorio).

Missioni Onu “completamente sottomesse”

Nel frattempo, a confermare ciò che chiunque dotato di un minimo di onestà intellettuale vede con i propri occhi, e cioè che Unifil è completamente sottomessa a Hezbollah, e non da oggi, ci pensa un ex peacekeeper Onu, intervistato da Jotam Confino (corrispondente da Israele per numerose testate, dal Telegraph alla BBC) per il quotidiano danese BT.

Già dieci anni fa era “completamente folle”. Hezbollah controllava quali aree i soldati Onu potevano visitare, e in alcune non potevano né entrare né scattare foto, racconta un ex soldato danese delle Nazioni Unite con alle spalle una carriera lunga più di 25 anni.

“Michael” (che per ovvii motivi mantiene l’anonimato) ha fatto parte della missione UNTSO (United Nations Truce Supervision Organization), la più antica e longeva delle Nazioni Unite, che nel sud del Libano collabora strettamente con Unifil, spesso condividendo le stesse basi, allo scopo di supervisionare la tregua, osservare e segnalare le violazioni della risoluzione 1701 del 2006, che – ricordiamo – prevede che che tutta la regione a sud del fiume Litani sia libera dalle attività di Hezbollah e che il gruppo terroristico venga disarmato.

Il soldato danese ricorda così quei giorni: “Eravamo totalmente soggetti a Hezbollah. Avevamo chiaramente una libertà di movimento limitata. Ad esempio, non operavamo mai dopo il tramonto per paura di Hezbollah. Quindi avevano tempo libero nelle ore serali e notturne”.

Quando si spostavano in auto incontravano spesso posti di blocco. Non dell’Unifil, come a rigor di logica avrebbe dovuto essere, ma di Hezbollah:

Bloccavano semplicemente la strada. Apparentemente non erano armati, ma aggressivi, ed era abbastanza chiaro che erano membri di Hezbollah: sapevamo molto bene chi decideva le cose, soprattutto nelle città sciite. Non volevano che vedessimo cosa stavano facendo. Quando pattugliavamo la Blue Line, vedevamo spesso “civili” molto vicini alle installazioni militari israeliane che scattavano foto. Quando ciò accadeva, ci ritiravamo e osservavamo da lontano: ci veniva semplicemente ordinato di farlo.

Proibito vedere

Ma a “Michael” e ai suoi colleghi non era permesso documentare cosa stesse accadendo: “Era proibito filmare e scattare foto. E se lo facevamo, potevamo finire con la gente del posto che ci confiscava le macchine fotografiche. È successo ai miei colleghi dell’Unifil e dell’UNTSO”. Il controllo di Hezbollah sul Libano meridionale era già massiccio all’epoca.

I civili a cui non importava di Hezbollah, specialmente i cristiani, avevano paura di parlare contro di loro. C’era una paura diffusa di loro. Ma allo stesso tempo abbiamo sperimentato la cooperazione con i musulmani sciiti. Ad esempio, avevamo un certo numero di interpreti che erano stati indottrinati in Hezbollah. Una volta ho finito per buttarne uno fuori dalla mia macchina mentre stava elogiando Hassan Nasrallah. Semplicemente non volevo ascoltarlo.

L’aspetto più frustrante la totale assenza di azioni e di conseguenze per le flagranti violazioni della risoluzione che venivano riscontrate:

Abbiamo segnalato quotidianamente le violazioni della risoluzione 1701 ai nostri superiori, comprese in particolare le restrizioni alla nostra libertà di movimento, e ci è stato ordinato di segnalare tutte le violazioni indipendentemente dal numero. Ma non è mai successo nulla. Non abbiamo ricevuto risposte e non è stato avviato nulla. È stato tremendamente frustrante e mi ha solo confermato ciò che avevo sperimentato in altri Paesi in cui ero stato assegnato: l’Onu è incompetente.

La maggior parte dei caschi blu era in buona fede, ricorda il peacekeeper danese, ma alcuni erano “ferventemente anti-israeliani“, ricordando in particolare un irlandese. “Non ci era permesso di ispezionare”, conclude “Michael”, ricordando però che gli israeliani avevano davvero una buona idea di dove si trovasse Hezbollah, “sapevano esattamente dove avevano avvistato Hezbollah dall’altra parte del confine”.

Critiche infondate al “Piano Albania”, che continua a riscuotere consensi

Il piano nasce per quei migranti illegali (la maggior parte) che usano la richiesta di asilo come espediente per non essere fermati e respinti, ma in realtà arrivano da paesi sicuri

di Anna Bono22 Ottobre 2024, 5:51

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I primi 16 emigranti, sei egiziani e dieci bengalesi, che viaggiavano su imbarcazioni dirette in Italia individuate da navi italiane nel Mediterraneo sono arrivati in Albania il 16 ottobre. Per quattro è stato subito disposto il trasferimento in Italia: due perché, verificati i dati anagrafici nell’hotspot di Shengjin, sono risultati minorenni e due perché non erano in buone condizioni di salute. Le strutture allestite dal governo italiano infatti non sono attrezzate per ospitare minori e persone bisognose di cure. Gli altri 12 sono stati portati a Gjaer, il centro destinato ai richiedenti asilo, ma il 18 ottobre la sezione immigrazione del Tribunale di Roma non ha convalidato il loro trattenimento nella struttura e così il 19 ottobre sono arrivati anche loro in Italia.

La motivazione addotta dal giudice è che non è possibile considerare Egitto e Bangladesh “paesi sicuri” e quindi che le richieste di asilo dei 12 emigranti non possono essere esaminate, e respinte, in Albania seguendo le procedure più rapide previste per chi, proprio in ragione del paese di provenienza, molto difficilmente può avere diritto a protezione internazionale: in altre parole per gli emigranti illegali che usano la richiesta di asilo come espediente per non essere fermati e respinti, ma in realtà arrivano da paesi che non presentano condizioni tali di violenza, insicurezza, persecuzione o guerra da giustificare la fuga dei loro abitanti.

Gli arrivi da “paesi sicuri”

Il Piano Albania nasce per questi emigranti illegali che sono la maggior parte, come dimostra la piccola percentuale dei richiedenti asilo che ottengono protezione internazionale. Il governo italiano ha individuato 22 stati che si possono considerare sicuri, tra i quali appunto l’Egitto e il Bangladesh. Entrambi i paesi figurano tra i 10 Stati da cui dall’inizio dell’anno sono arrivati più emigranti illegali: 3.453 dall’Egitto e 10.832 dal Bangladesh.

Nelle prime dieci posizioni per numero arrivi si trovano anche altri due Stati che il governo italiano ha stabilito essere sicuri: la Tunisia, da cui sono arrivate 7.200 persone, e il Gambia, 1.205. In tutto provengono da questi quattro paesi 22.690 emigranti illegali sul totale di 55.010.

Le critiche al Piano Albania

In Italia il Piano Albania è fortemente avversato dai partiti all’opposizione e da molte cooperative e organizzazioni umanitarie. Le critiche vertono sia sul piano morale sia su quello economico, infondate in entrambi i casi. Il costo complessivo del Piano, di oltre mezzo miliardo in cinque anni, definito esorbitante, non tiene conto dei costi altrettanto elevati e anzi superiori della accoglienza nei Cas, i Centro di accoglienza straordinaria, che ospitano gli emigranti in Italia per tutto il tempo, mesi e a volte anni, necessario all’esame delle loro richieste di asilo, senza contare altre spese.

Il solo gratuito patrocinio che consente agli immigrati le cui richieste di asilo vengono respinte dalle commissioni territoriali di ricorrere in Cassazione usufruendo di assistenza legale pagata dallo Stato italiano è arrivato a costare fino a 50 milioni di euro all’anno.

Sul piano morale e legale, le accuse al governo italiano di “deportazione di migranti”, di “violazione dei loro diritti fondamentali” sono insostenibili. Quelli che davvero sono fuggiti per salvare vita e libertà chiedono aiuto e ne hanno diritto. Meglio per loro sarebbe stato se, come dovrebbe succedere, li avessero presi in carico l’Alto commissariato Onu per i rifugiati e le autorità del primo paese straniero in cui hanno messo piede invece di dover percorrere migliaia di chilometri clandestinamente e pagare migliaia di dollari alle organizzazioni criminali alle quali si sono rivolti per il viaggio. Adesso, comunque, a loro non importa di essere in Italia, in Albania o altrove purché al sicuro e in condizioni dignitose.

L’effetto deterrente

Non così è per chi invece vuole entrare in Unione europea a qualsiasi costo. Ed è questo l’effetto deterrente che il Piano Albania esercita sugli emigranti illegali e sulle organizzazioni criminali che ne gestiscono i viaggi: non avere più la certezza di arrivare a destinazione. “Siamo felici di essere trasferiti in Italia” hanno dichiarato i 12 emigranti alla notizia che avrebbero lasciato l’Albania e non vedevano l’ora di riferirlo alle famiglie. “Erano raggianti e sorridenti – ha commentato Rachele Scarpa, deputata del Pd, che era andata in Albania per verificare le condizioni di accoglienza – gli abbiamo spiegato che adesso non è del tutto finita e fornito qualche elemento in modo che potessero avere accesso ad una adeguata assistenza legale. Controlleremo che le cose vadano per il verso giusto anche in Italia e loro ci hanno ringraziati”.

Il modello Albania riscuote consensi

In Europa invece l’Italia e il Piano Albania stanno riscuotendo consensi. All’incontro informale promosso da Italia, Danimarca e Paesi Bassi svoltosi a Bruxelles il 17 ottobre per discutere di “soluzioni innovative” di contrasto all’emigrazione illegale hanno partecipato Austria, Cipro, Polonia, Repubblica Ceca, Grecia, Ungheria, Malta, Slovacchia e la Commissione europea nella persona del presidente Ursula von der Leyen. Una soluzione considerata con sempre maggiore interesse è proprio il trasferimento dei richiedenti asilo in paesi terzi sicuri, come l’Albania.

La Danimarca è stato forse il primo Stato dell’Unione europea a pensare a questa soluzione con destinazione il Rwanda, lo stesso paese con cui aveva avviato un piano di trasferimento la Gran Bretagna, poi accantonato dal governo laburista entrato in carica quest’anno.

Il governo olandese alla vigilia dell’incontro ha invece annunciato che sta valutando un piano di riallocazione in Uganda dei richiedenti asilo africani respinti, in attesa del loro rimpatrio. Si tratterebbe di creare lì uno hub di rimpatrio. Il ministro olandese del commercio estero e della cooperazione allo sviluppo Reinette Klever ne ha discusso con il ministro degli esteri ugandese Jeje Odongo durante una sua recente visita nel paese africano. La scelta dell’Uganda dovrebbe riscuotere consensi unanimi dal momento che alcuni anni fa l’Alto Commissariato Onu per il rifugiati l’ha dichiarata il miglior luogo al mondo in cui chiedere asilo.

La sentenza contro l’Italia

Ma contro l’Italia si è espressa la Corte di Giustizia europea con una sentenza del 4 ottobre che è stata citata dal Tribunale di Roma come base giuridica per motivare la propria impossibilità di riconoscere come “paesi sicuri” Egitto e Bangladesh. Secondo i giudici della Corte di Giustizia europea un paese terzo si può definire sicuro solo se è possibile dimostrare che tutto il suo territorio nazionale lo è, “in modo generale e uniforme”.

In questi termini non può ritenersi sicuro, come invece ha stabilito il governo italiano, ad esempio il Senegal, uno degli stati africani che godono di maggiore stabilità economica e politica e da più lungo tempo, ma nel quale permangono spinte indipendentiste nella Casamanche, una regione del sud dove talvolta si verificano scontri tra manifestanti e forze di sicurezza e altri incidenti, il che peraltro non è di ostacolo alla fiorente industria turistica.

Se si pretende la totale, assoluta sicurezza, forse nessuno dei 22 paesi indicati dal governo italiano ha i requisiti richiesti. A ben pensare, non li ha neanche l’Italia.

Ecco perché non si può sfuggire alla mannaia del potere dei giudici

Una precisa corrente culturale ha costruito per decenni una prigione giuridica socialdemocratica: o la politica la demolisce, o può anche smettere di abbaiare alla luna

di Rocco Todero21 Ottobre 2024, 5:58

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Non si può non comprendere, se si vuole che ci sono tre pilastri giuridici che imbrigliano la politica nazionale, nel bene e nel male, dentro un recinto dal quale non c’è alcuna possibilità di sfuggire alla mannaia del potere dei giudici. Costituzione della Repubblica, Trattati europei e Convenzione EDU rappresentano il recinto che sta via via annullando – azzerando – la discrezionalità di qualsiasi autorità politica nazionale.

In virtù di questi tre livelli di costituzionalismo il potere discrezionale della politica è pressoché ridotto a zero. Per molti versi è un bene che sia così, per altri è invece una disgrazia dalle proporzioni immani.

Il pilota automatico

Il costituzionalismo è la Bibbia della civiltà moderna; è nato per tutelare l’individuo dai soprusi del potere, per sconfiggere il Sovrano legibus solutus che poteva fare ciò che più gli aggradava delle vite altrui.

Ma il costituzionalismo europeo ha deragliato: quello che era nato come un progetto di limitazione del potere, per evitare che i cittadini fossero schiacciati dalle tasse, per evitare che si giustiziassero colpevoli ed innocenti senza un regolare processo, per tutelare la libertà e la proprietà, si è trasformato in un progetto di costruzione di una nuova società.

L’individuazione di fini sociali specifici (o di obiettivi economici precisi) ha inserito quello che possiamo definire il pilota automatico, un pilota che non può essere disturbato da nessuno, nemmeno dal più vasto mandato elettorale.

Pensiamo all’art. 3, comma 2, della Cost: è una norma che non si limita ad imporre al legislatore ciò che non può fare, ma che lo costringe anche a raggiungere di necessità un certo risultato. È tutto ciò che va in direzione opposta è cassato dalla Corte costituzionale.

Oppure pensiamo alla norma costituzionale sulla tassazione progressiva: il parlamento, qualsiasi parlamento dotato del più ampio consenso, non può disattenderla. E si potrebbe andare avanti all’infinito.

Alla Costituzione repubblicana si affiancano i Trattati europei e la Convenzione EDU. Anche in questo caso si tratta di livelli costituzionali della normazione e nessuna autorità politica può disattendere ciò che impongono la Corte di giustizia e la corte di Strasburgo.

Per essere chiari: questo meccanismo del pilota automatico ha rappresentato dopo la Seconda Guerra Mondiale tanta parte della salvezza dell’Europa, su questo non può esservi alcun dubbio. La cultura dei diritti umani è stata fondamentale per la salvaguardia delle nostre esistenze e per la tutela di un assetto liberal democratico. Ma ci sono rovesci della medaglia rappresentati anch’essi dalla impotenza della volontà politica (come nel caso delle politiche di migrazione) e non è detto che vada sempre tutto bene.

Se possiamo decantare le virtù della Costituzione repubblicana e dei Trattati europei che tutelano gli equilibri di bilancio, la concorrenza, la proprietà e le principali libertà (negative), anche contro la volontà politica nazionale più forte che vorrebbe deviare da certi obiettivi, in altri ambiti, il pilota automatico sembra soffocare qualsiasi desiderio di cambiamento.

Lo strapotere del singolo giudice

Ciò che la politica non sembra cogliere è l’effettivo rapporto di forza fra volontà, appunto, politica e volontà giuridica (nelle mani della giurisdizione).

A chi scrive fa molto piacere, solo per fare un esempio, che i Trattati europei e le direttive impediscano ai balneari di vivere di una rendita di posizione non contendibile, ma c’è un però, c’è un ma, che non viene preso in considerazione. Abbiamo costruito un ordinamento europeo nel quale il singolo giudice nazionale (giovane e inesperto, anziano e navigato, non ha importanza) può disapplicare tutte le leggi volute dal Parlamento (dalla sovranità nazionale) se solo le considera poste in violazione del diritto europeo.

Forse questo aspetto, nella sua eclatante potenza non è preso in considerazione dalla classe politica. Il singolo giudice non deve nemmeno rivolgersi alla Corte costituzionale; può semplicemente fare finta che la volontà del Parlamento nazionale non esista. Con meccanismi un po’ diversi e meno cogenti vale lo stesso discorso anche quando una norma è in contrasto con la convenzione EU e con altri trattati internazionali.

La sottomissione della politica

Cosa voglio dire? La classe politica italiana conduce le campagne elettorali e mette in atto azioni di governo come se questo recinto di vincoli rappresentato dalle norme di livello costituzionale non esistesse. Promette la rivoluzione in ambiti politici all’interno dei quali poi non può far nulla, pena la sanzione dei giudici, e ciononostante incolpa la magistratura.

No signori; se non potete fare ciò che volete (giusto o sbagliato che sia) in ambito di bilancio pubblico non è colpa della magistratura contabile o della Ue, è colpa della sottomissione che avete accettato rispetto ad una cornice giuridica precisa. Se non potete fare ciò che volete in ambito delle politiche industriali o della concorrenza, non è perché qualche malefico sotterfugio vi sta colpendo, ma è perché avete accettato di operare all’interno di un quadro di regole che conoscevate prima di candidarvi a guidare la nazione.

E la stessa cosa vale per l’immigrazione. Piaccia o non piaccia (a me spesso non piace) ci sono regole nazionali e internazionali che non consentono determinate azioni. È colpa della magistratura che applica la legge? O è colpa della inescusabile ipocrisia di chi si candida a guidare la nazione senza avere consapevolezza dei limiti che incontrerà la propria azione?

Le regole del gioco

Le regole, signori; dovete cambiare le regole del gioco, se avete onestà intellettuale, coraggio e capacità di affrontare la sconfitta.

C’è stata una corrente culturale precisa, che ha seminato per decenni, nel bene o nel male, in Europa (negli Stati Uniti ad esempio non è così) per costruire una prigione giuridica socialdemocratica (che a me non piace) dalla quale non vi è consentito uscire se non demolendola. Lo ripeto: la cornice del costituzionalismo nazionale ed internazionale è stata fondamentale e lo è ancora per molti aspetti; per il resto però o la demolite o la smettete di abbaiare alla luna.